“Non ho nulla da negare e niente da nascondere”.

“Quella è una setta…”.

“Ma no, guardi, lasciamo stare le sette che mi ricordano un altro caso, quello di Rosia…”.

“Già, anche quella volta…Insomma, le ripeto, si dia una mossa e mi faccia pervenire al più presto nel mio ufficio un resoconto dettagliato delle indagini”. E come al solito buttò giù il ricevitore senza aspettare risposta e salutare. Naturalmente non pensai nemmeno per un momento a darmi una mossa come aveva ordinato il nostro caro Silvestri, ma mi spaparacchiai sulla poltrona vellutata a farmi una pennichella. I problemi nella vita vanno affrontati con calma. Mai di fretta. La gatta frettolosa fa i gattini ciechi diceva la mia povera nonna, che non aveva mai messo piede in una scuola ma aveva più cervello di tante diplomate del giorno d’oggi. La pennichella ebbe il suo bell’effetto. Al risveglio mi sentii più in forma. Si fa per dire perché, lo ripeto, era un caldo asfissiante. Nonostante questo, o forse proprio per questo, ero piuttosto agitato, sia per quell’accidente di caso cadutomi fra capo e collo, sia perché…perché mi dovevo lavare, cioè farmi una doccia, vestire, o meglio rivestire di nuovo. E qui viene in ballo la mia povera mamma che il Signore l’abbia in gloria. Una donna meravigliosa, si sa, era la mia mamma, ma con un piccolo, devastante difetto. Teneva in modo ferreo, intransigente alla forma. In poche parole fin da piccolo, quando arrivai all’età giusta, mi abituò a vestire in tutte le sante stagioni, con giacca e cravatta. All’inizio recalcitrai ma poi dovetti dargliela vinta e finii per diventare io stesso schiavo di questa funesta tradizione. Però nel male c’è sempre un piccolo spazio per il bene. Comprando cravatte incominciai a conoscere le differenze di qualità, a valutarne il tessuto e i colori. Ne divenni un esperto e finii per farne collezione. Ne avevo un armadio tutto pieno e alcune me le ritrovavo perfino nei cassetti, tanto che mi era sorto il dubbio che potessero prolificare. Di ogni tipo, tutte sfavillanti che sembravano farfalle. Dunque anche quella sera dovetti sceglierne una che era pur bella ma che non favoriva certo la traspirazione. Tuttavia faceva talmente caldo che, quando uscii in strada per avviarmi verso il CRAL del Monte dei Paschi, dove era ubicato il circolo degli scacchi, dovetti togliermi la giacca e allentare il nodo della cravatta, lanciando uno sguardo tra l’implorante e l’insofferente verso il cielo come per dire “Ovvia, mamma…”.

Al CRAL mi sentii un po’ sollevato, dato che c’era l’aria condizionata e potei rimettermi la giacca.

“Qual buon vento la porta, commissario…” iniziò il barista appena mi vide.

“A dir la verità di vento ne vedo poco in giro. E poi anche se ci fosse non sarebbe un buon vento”.

“Perché, che cosa è successo?”

“Ci risiamo “.

“Non mi dica, commissario, che…che… ancora una volta c’è stato qualche brutto affare a Siena”.

“Non proprio, ma vicino”.

“Un omicidio?”.

“Così pare”.

“L’ho sempre detto io. Da quando sono arrivati da noi albanesi, rumeni e ora cinesi e giapponesi…”.

“E russi, polacchi, sloveni, marocchini, egiziani…”.

“Anche lei la pensa come me?”.

“A Lorè che dai i numeri? Non ti ricordi di quando noi dovevamo andare in giro per il mondo con le valigie di cartone tenute insieme con lo spago?”.

“Beh, questo è vero, però…”.

“Però, però…lasciamo stare. L’hai mai vista questa? Voglio dire l’hai mai vista entrare al circolo?” e gli misi sotto gli occhi le foto della povera ragazza. Lorenzo le guardò con attenzione.

“Non mi pare, commissario. Direi di no, proprio di no”.

“Allora dammi una Tassoni che mi rinfresco. C’è nessuno nella stanza dei fissati?”.

“Vuole dire dei giocatori di scacchi?”.

“Quelli lì”.

“Eccome se ci sono. E se le stanno dando di santa ragione”.

“Sono arrivati a questo punto?”.

“No, volevo dire che stanno giocando con una certa, come dire, passione”.

I giocatori di scacchi sono sempre passionali….soprattutto quando giocano a blitz. Trattasi di un incontro veloce, di cinque minuti a disposizione per ogni giocatore. Uno muove i pedoni o i pezzi sulla scacchiera e dopo ogni mossa con un semplice colpetto sull’orologio dell’avversario fa scattare il suo tempo a disposizione e viceversa. All’inizio i movimenti sono leggeri e vellutati ma piano piano diventano frenetici e incontrollati. Alla fine i poveri segnatempo si devono sorbire delle vere e proprie mazzate da esseri che hanno ben poco di umano. Inevitabili le diatribe anche se durante il gioco non si dovrebbe aprire bocca. Hai toccato prima il Cavallo, lo devi muovere…Ma che dici, non l’ho neppure sfiorato. Tu, invece, tocchi sempre qualche pezzo e poi non lo muovi…Non puoi mangiarmi il Re! Non esiste…Sì che posso! A blitz c’è questa regola, se non la sai, studiala.…E’ vero, ragazzi?…Ti è cascata la bandierina…No, prima a te…A me? Ma se te l’ho detto prima io che ti è cascata…Ma che c’entra…Ho vinto per il tempo…Un fico secco, ho vinto io…Ma falla finita. Non giochi un c….! Quando perdi cominci ad offendere…Perché te sei carino! E’ in una atmosfera simile inframezzata da simili discorsi che misi piede nella stanza riservata agli eletti, si fa per dire, di Caissa. La mia entrata non fece alcuna impressione tanto erano presi a muovere freneticamente Pedoni, Re, Regine, Torri, Alfieri e Cavalli. Alla fine della partita, però, tutti si voltarono verso di me.